La città di ghiaccio

Poiché le linee del fronte tra l’Italia e la Monarchia austro-ungarica correvano prevalentemente in alta montagna, la Prima Guerra Mondiale fu combattuta fin sulle cime più impervie delle Alpi tirolesi.

Tra fine maggio 1915 e inizio novembre 1917 le truppe lottarono, infatti, per il possesso di un massiccio alpino di strategica importanza, la Marmolada. Chi dominava le valli di Fassa e di Badia aveva, infatti, anche il controllo dell’intero Tirolo.

Alpinisti esperti in prima linea, ma anche soldati che ebbero il coraggio di affrontare i durissimi scontri tra neve e ghiaccio, portarono avanti la guerra tra montagne che superavano i 3000 metri d’altezza. La maggior parte dei soldati che presero parte alle battaglie tra le Alpi tirolesi, proveniva dai paesi della regione e pertanto conosceva alla perfezione le montagne della zona.

I soldati, costretti per anni a lottare per la difesa di ogni metro conquistato nella neve e nel ghiaccio di quelle cime vertiginose, trovarono, così, tra le file del fronte nemico ex-compagni di montagna.

Bernard Fedele, soldato della Monarchia imperialregia, racconta: «Si combatteva e si moriva lassù, non con odio, ma con profonda pena nel cuore. Da una parte c’erano i valligiani della Val di Fassa, dall’altra parte i crudi montanari della Val Cordevole, gente con cui, in tempo di pace, si era arrampicato insieme» *(1)

Il vero nemico dei soldati, tuttavia, era la montagna stessa, il freddo crudele, il continuo pericolo di valanghe e l’insopportabile fame.

L’ingegnere Leopold Handl, che all’epoca aveva soltanto 29 anni, ebbe la straordinaria idea di costruire nel ghiacciaio della Marmolada una vera e propria città di ghiaccio che da una parte avrebbe costituito un sicuro punto d’appoggio per i soldati austro-ungarici, e dall’altra avrebbe facilitato l’approvvigionamento e lo stoccaggio delle preziose provviste.

Handl era il comandante di un gruppo di guide alpine composto da 12 ufficiali e 200 soldati, e insieme ai suoi uomini cominciò a scavare in tre diversi punti del ghiacciaio riuscendo a creare, in breve tempo, due grandi caverne comunicanti che si univano in un tunnel sotto il ghiacciaio.

Già dopo una settimana di lavori gli uomini avevano scavato fino a 30 metri sotto il ghiacciaio, e per farlo, i soldati fecero uso di materiale esplosivo. A causa dei gas tossici rilasciati dalle esplosioni, tuttavia, erano costretti a darsi il cambio ogni due ore. In questo modo riuscirono a scavare fino a 6 metri al giorno sotto l’imponente ghiacciaio.

La costruzione di quella città di ghiaccio era un’impresa molto pericolosa che costò la vita a molti soldati. Basti pensare che soltanto le scale di ghiaccio, che in teoria dovevano rendere più accessibili i “cantieri” all’interno del ghiacciaio, si trasformarono in trappole mortali per molti uomini. Tra quelle profonde gole ghiacciate, che misuravano dai 30 ai 40 metri, i coraggiosi soldati avevano costruito semplici ponti di legno, il cui attraversamento richiedeva massima attenzione e concentrazione.

«Noi invece apprezzavamo la protezione offertaci dalle gallerie di ghiaccio contro valanghe, bufere e bombe nemiche» *(2) così diceva il “padre” della città di ghiaccio Leopold Handl.

In queste gallerie di ghiaccio gli uomini allestirono baracche di legno che offrivano una certa protezione contro il freddo gelido ed erano riscaldate da stufe a legna.

Dalla città di ghiaccio, i cui infiniti cunicoli avevano addirittura finestre, i soldati avevano la possibilità di osservare la catena montuosa delle Alpi centrali. Il sistema di tunnel era illuminato da lampade a petrolio e acetilene, che emanavano un odore insopportabile e che tingevano quasi completamente di nero i volti dei soldati.

Con l’inizio della stagione calda iniziava per gli uomini una corsa contro il tempo. Le gallerie di ghiaccio, infatti, cominciavano a sciogliersi diventando sempre più pericolose, mentre il pericolo di valanghe si faceva sempre più alto. Il numero di perdite nell’estate 1916 fu così drammaticamente alto che fu impartito l’ordine di non seppellire nella neve i cadaveri in modo da evitare la contaminazione dell’acqua.

Le sentinelle, d’altra parte, avevano l’ordine di controllare notte e giorno se tra le fessure dei ghiacciai ci fossero bombe nemiche non esplose.

Con immensa fatica i soldati austro-ungarici trasportarono cannoni pesanti quintali fino alle vette più alte della Marmolata con lo scopo di colpire le trincee di collegamento degli italiani. Per i soldati di entrambi i fronti, invece, pezzi d’artiglieria non esplosi e sepolti nel ghiaccio e nella neve si trasformarono in vere e proprie bombe ad orologeria.

Ancora una volta, tuttavia, era la natura a rappresentare il nemico più grande, e non le truppe avversarie. La realtà, infatti, superava di gran lunga i timori di Leopold Handl che fu costretto presto a riconoscere che la città di ghiaccio non offriva la minima protezione contro le valanghe che con l’inizio della primavera erano particolarmente frequenti.

Sulla guerra sulla Marmolada Handl commenta: «In mezzo alle forze della natura la dedizione senza riserve e lo spirito di sacrificio del singolo rappresentavano il concetto fondamentale per la sopravvivenza […] i pericoli comuni accrescevano il sentimento d’unione e di fiducia reciproca. Reale cameratismo di montagna». *(3)

“La montagna della morte”, così i soldati italiani soprannominarono la Marmolada perché scarsamente equipaggiati e preparati com’erano, morirono più per il freddo e per i pericoli delle alte vette che per gli attacchi del nemico.

Il giovane soldato Antonio Pedalino, che si era arruolato volontario al fronte, non riusciva quasi a crederci «e questa era dunque la guerra? Mi avevano dipinto la guerra nella maniera più orribile ma dove erano gli uomini che conducevano la guerra, non si vedeva un’anima! Cercavo, come gli altri, di comprendere la quintessenza della guerra, ma almeno io, non ne ero in grado» *(4).

All’inizio i soldati italiani non comprendevano come facessero le truppe nemiche ad assumere con tanta velocità i posti di difesa, e come facessero a respingere ogni tentativo di attacco con altrettanta celerità.

Quando, infine, nemmeno gli aereoplani Caproni italiani riuscirono a scoprire dove si nascondessero le truppe imperial-regie, fu confermata l’ipotesi avanzata dagli Alpini italiani, ovvero che queste avessero costruito una vera e propria fortezza all’interno del ghiacciaio.

Le truppe italiane cercarono così di circondare i soldati austro-ungarici con gli stessi mezzi e alla fine i loro sforzi condussero a una battaglia unica nella storia all’interno del ghiacciaio.

Non era soltanto il nemico invisibile a sfiancare i soldati, quanto piuttosto la loro scadente attrezzatura e le scarse possibilità d’approvvigionamento.

«Abbiamo marciato nell’acqua sempre più in alto fino a quando, stanchi, completamente zuppi e tremanti di freddo, abbiamo trovato la neve e in quaranta c’infilammo in una baracca che in realtà offriva posto per 15 persone […]»*(5) ricorda l’allora diciannovenne soldato italiano Celestino Paoli.

Non solo mancavano baracche di legno e posti per dormire per i soldati italiani, ma anche materiale per riscaldarsi e cibo sufficiente.

In questo contesto è interessante confrontare il cinegiornale austriaco del 1917 che parlava di una “guerra eroica nella neve e nel ghiaccio” e il documentario italiano “La guerra nelle Alpi” dello stesso anno che rappresentava la fatica dei soldati italiani sul fronte alpino.

Paragonati ai soldati italiani, i soldati imperial-regi erano in numero minore, ma meglio equipaggiati per la dura vita nella neve e nel ghiaccio.

L’esercito austro-ungarico aveva cominciato per tempo a costruire baraccamenti e depositi per la legna sulla Marmolada. Questo costituì un vantaggio decisivo anche durante gli scontri, perché le truppe erano sensibilmente più riposate, meglio nutrite e meno stanche della guerra.

I soldati imperial-regi esortarono, infine, i soldati italiani a cambiare fronte e a disertare. Oltre a regali in denaro, e la prospettiva di mangiare meglio e di essere meglio equipaggiati, molti italiani che vivevano al confine sentivano di appartenere sia geograficamente che linguisticamente più all’esercito austro-ungarico che a quello italiano.

Così scriveva orgogliosamente alla madre nel 1915 il diciottenne Enzo Valentini che si era arruolato volontario al fronte alpino: «Quando mi trovai accanto alla bandiera provai nel petto un dolore pungente per la paura che tu, madre mia, non potessi vedermi tra la folla […]»*(6)

Alcuni mesi dopo, il 21.10.1915, il giovane soldato Valentini cadde in battaglia. Infilata nella giacca della divisa fu trovata questa lettera alla madre: «nelle trincee sul Sasso del Mezzodì. Una violenta tempesta di neve al tramontar della luna» *(7)

Dopo poco tempo per i soldati di entrambi i fronti l’iniziale entusiasmo e l’orgoglio di andare in guerra per il proprio paese si trasformarono in un incubo a oltre 3000 metri d’altezza. Diventava sempre più evidente quanto fossero prive di senso quella guerra infinita e la morte per accaparrarsi pochi metri di territorio nella neve e nel ghiaccio.

Alla fine, il 5 novembre 1917, i soldati italiani si ritirarono dagli scontri sulla Marmolada mettendo fine alla guerra sul fronte alpino.

Quando, ad ogni primavera il ghiacciaio si scioglie, ancora oggi, a distanza di cento anni dagli scontri, emergono testimonianze di quella guerra tra le viscere della montagna – armi, apparecchiature tecniche e mediche, uniformi, ma anche diari e oggetti quotidiani che ci lasciano intuire come dovesse essere la vita degli uomini nella città di ghiaccio.

Citazioni

*(1) Mario Bartoli, Mario Fornario e Giandolfo Rotasso, La città di ghiaccio – guida agli itinerari e al Museo della guerra 1915-1918 in Marmolada, casa editrice Publilux, Trento, p. 92.
*(2) Andrea e Wachtler De Bernardin, La città di ghiaccio – la Grande Guerra nelle viscere della montagna, Edizioni Athesia, Bolzano, p. 12.
*(3) Ibidem, p.23
*(4) Ibidem, p.23
*(5) Ibidem, p.23
*(6) Ibidem, p.52
*(7) Ibidem, p.52

Fonti

Mario Bartoli, Mario Fornario e Giandolfo Rotasso, La città di ghiaccio. Guida agli itinerari e al Museo della guerra 1915-1918 in Marmolada, casa editrice Publilux, Trento.

Andrea e Wachtler De Bernardin, La città di ghiaccio – la Grande Guerra nelle viscere della montagna, Edizioni Athesia, Bolzano.

Grundlagenpapier Österreichischer WissenschaftlerInnen.

Ö1 macht Schule: Der Erste Weltkrieg als Epochenbruch. Die Geburtsstunde des 20. Jahrhunderts.

www.lagrandeguerra.net/ggmarmolada.html

www.reise-nach-italien.de/italien-ersterweltkrieg.html

www.welt.de/geschichte/article124046807/Wie-derErste-Weltkrieg-den-Film-veraenderte.html