L’Italia e la Monarchia imperialregia nella Prima Guerra Mondiale

Nel 1914 l’Italia faceva parte della Triplice Alleanza che la legava militarmente al Reich tedesco e alla Monarchia austro-ungarica. Con lo scoppio della guerra, ci si aspettava, dunque, che il Belpaese si sarebbe unito ai suoi alleati.

L’Italia invece indugiava e, di fatto, da un punto di vista formale, non era nemmeno obbligata a intervenire poiché il patto prevedeva che questa avrebbe dovuto sostenere militarmente i propri alleati, soltanto in caso di ricevuta aggressione, cosa che non era avvenuta, poiché era stata la Monarchia austro-ungarica ad attaccare la Serbia.

A prescindere da ciò, da un punto di vista militare l’Italia non era sufficientemente preparata e gli italiani, a differenza dei popoli partecipanti alla guerra, non mostravano entusiasmo nei confronti del conflitto.

La posizione esitante dell’Italia aveva, tuttavia, anche motivi strategici, poiché dalla partecipazione alla guerra ci si aspettava una ricompensa in forma di un concreto ampliamento territoriale, ovvero l’annessione del Trentino e della città di Trieste. Entrambe appartenevano alla Monarchia austro-ungarica, tuttavia, a Trieste prevaleva la popolazione italiana e il movimento pro Italia era molto forte e attivo. Nel Trentino, invece, la maggioranza della popolazione era contraria all’annessione all’Italia.

L’Austria, tuttavia, si rifiutò di accettare le condizioni che l’Italia aveva posto per partecipare al conflitto al suo fianco, e cosi questa entrò segretamente in trattativa con l’Inghilterra e la Francia.

Tra il 1914 e il 1915 la propaganda degli interventisti che spingevano verso l’entrata in guerra, diventava sempre più forte. Tra le loro fila si contavano anche il noto poeta Gabriele D’Annunzio e l’allora ancora giovane Benito Mussolini.

La Francia e l’Inghilterra erano più favorevoli alle ambizioni espansive dell’Italia e così, il 23 maggio 1915, questa entrò in guerra al fianco dell’Intesa.

Durante i primi mesi di guerra l’Italia era fortemente armata e la propaganda bellica contro la Monarchia austro-ungarica si faceva sempre più aggressiva, tuttavia, sia la preparazione militare che quella psicologica alla guerra non erano assolutamente sufficiente.

L’Italia dovette presto abbandonare l’illusione di vincere velocemente il conflitto, basti pensare che soltanto lo scontro sulle Alpi tra Italia e Impero asburgico durò oltre tre anni senza che nessuna delle parti riportasse una sostanziale vittoria. Ciò era dovuto al fatto che le linee del fronte tra Austria e Italia correvano per lo più tra le montagne e spesso nel ghiaccio e nella neve.

Nel corso di 15 sanguinosi scontri nei pressi del fiume Isonzo e durante 3 scontri sul Piave entrambe le parti persero un totale di un milione di soldati senza che nessuna potesse dichiararsi vincitrice.

Tra il 1915 e il 1918 l’Italia aveva mobilizzato in tutto 5,6 milioni di soldati dei quali 650.000 morirono e 950.000 restarono feriti. Le perdite della Monarchia austro-ungarica, d’altra parte, ammontavano a 400.000 soldati.

L’Italia, che aveva lottato al fianco dell’Intesa e quindi delle forze vincitrici, ottenne la città di Trieste, il Trentino, l’Alto Adige e l’Istria. Il Belpaese, tuttavia, pretese anche la strategica città-porto di Rijeka (Fiume) e parti della costa della Dalmazia che tuttavia non ottenne.

Fonti

Mario Bartoli, Mario Fornario e Giandolfo Rotasso, La città di ghiaccio – guida agli itinerari e al museo della guerra 1915-1918 in Marmolada, Casa editrice Publilux, Trento.

Andrea De Bernardin e Michael Wachtler, La città di ghiaccio – la Grande Guerra nelle viscere della montagna, Edizioni Athesia, Bolzano.

Ö1 macht Schule: der erste Weltkrieg als Epochenbruch. Die Geburtsstunde des 20. Jahrhunderts.

http://www.lagrandeguerra.net/ggmarmolada.html

http://www.reise-nach-italien.de/italien-erster weltkrieg.html

http://www.welt.de/geschichte/article124046807/Wie-derErste-Weltkrieg-den-Film-veraenderte.html

La città di ghiaccio

Poiché le linee del fronte tra l’Italia e la Monarchia austro-ungarica correvano prevalentemente in alta montagna, la Prima Guerra Mondiale fu combattuta fin sulle cime più impervie delle Alpi tirolesi.

Tra fine maggio 1915 e inizio novembre 1917 le truppe lottarono, infatti, per il possesso di un massiccio alpino di strategica importanza, la Marmolada. Chi dominava le valli di Fassa e di Badia aveva, infatti, anche il controllo dell’intero Tirolo.

Alpinisti esperti in prima linea, ma anche soldati che ebbero il coraggio di affrontare i durissimi scontri tra neve e ghiaccio, portarono avanti la guerra tra montagne che superavano i 3000 metri d’altezza. La maggior parte dei soldati che presero parte alle battaglie tra le Alpi tirolesi, proveniva dai paesi della regione e pertanto conosceva alla perfezione le montagne della zona.

I soldati, costretti per anni a lottare per la difesa di ogni metro conquistato nella neve e nel ghiaccio di quelle cime vertiginose, trovarono, così, tra le file del fronte nemico ex-compagni di montagna.

Bernard Fedele, soldato della Monarchia imperialregia, racconta: «Si combatteva e si moriva lassù, non con odio, ma con profonda pena nel cuore. Da una parte c’erano i valligiani della Val di Fassa, dall’altra parte i crudi montanari della Val Cordevole, gente con cui, in tempo di pace, si era arrampicato insieme» *(1)

Il vero nemico dei soldati, tuttavia, era la montagna stessa, il freddo crudele, il continuo pericolo di valanghe e l’insopportabile fame.

L’ingegnere Leopold Handl, che all’epoca aveva soltanto 29 anni, ebbe la straordinaria idea di costruire nel ghiacciaio della Marmolada una vera e propria città di ghiaccio che da una parte avrebbe costituito un sicuro punto d’appoggio per i soldati austro-ungarici, e dall’altra avrebbe facilitato l’approvvigionamento e lo stoccaggio delle preziose provviste.

Handl era il comandante di un gruppo di guide alpine composto da 12 ufficiali e 200 soldati, e insieme ai suoi uomini cominciò a scavare in tre diversi punti del ghiacciaio riuscendo a creare, in breve tempo, due grandi caverne comunicanti che si univano in un tunnel sotto il ghiacciaio.

Già dopo una settimana di lavori gli uomini avevano scavato fino a 30 metri sotto il ghiacciaio, e per farlo, i soldati fecero uso di materiale esplosivo. A causa dei gas tossici rilasciati dalle esplosioni, tuttavia, erano costretti a darsi il cambio ogni due ore. In questo modo riuscirono a scavare fino a 6 metri al giorno sotto l’imponente ghiacciaio.

La costruzione di quella città di ghiaccio era un’impresa molto pericolosa che costò la vita a molti soldati. Basti pensare che soltanto le scale di ghiaccio, che in teoria dovevano rendere più accessibili i “cantieri” all’interno del ghiacciaio, si trasformarono in trappole mortali per molti uomini. Tra quelle profonde gole ghiacciate, che misuravano dai 30 ai 40 metri, i coraggiosi soldati avevano costruito semplici ponti di legno, il cui attraversamento richiedeva massima attenzione e concentrazione.

«Noi invece apprezzavamo la protezione offertaci dalle gallerie di ghiaccio contro valanghe, bufere e bombe nemiche» *(2) così diceva il “padre” della città di ghiaccio Leopold Handl.

In queste gallerie di ghiaccio gli uomini allestirono baracche di legno che offrivano una certa protezione contro il freddo gelido ed erano riscaldate da stufe a legna.

Dalla città di ghiaccio, i cui infiniti cunicoli avevano addirittura finestre, i soldati avevano la possibilità di osservare la catena montuosa delle Alpi centrali. Il sistema di tunnel era illuminato da lampade a petrolio e acetilene, che emanavano un odore insopportabile e che tingevano quasi completamente di nero i volti dei soldati.

Con l’inizio della stagione calda iniziava per gli uomini una corsa contro il tempo. Le gallerie di ghiaccio, infatti, cominciavano a sciogliersi diventando sempre più pericolose, mentre il pericolo di valanghe si faceva sempre più alto. Il numero di perdite nell’estate 1916 fu così drammaticamente alto che fu impartito l’ordine di non seppellire nella neve i cadaveri in modo da evitare la contaminazione dell’acqua.

Le sentinelle, d’altra parte, avevano l’ordine di controllare notte e giorno se tra le fessure dei ghiacciai ci fossero bombe nemiche non esplose.

Con immensa fatica i soldati austro-ungarici trasportarono cannoni pesanti quintali fino alle vette più alte della Marmolata con lo scopo di colpire le trincee di collegamento degli italiani. Per i soldati di entrambi i fronti, invece, pezzi d’artiglieria non esplosi e sepolti nel ghiaccio e nella neve si trasformarono in vere e proprie bombe ad orologeria.

Ancora una volta, tuttavia, era la natura a rappresentare il nemico più grande, e non le truppe avversarie. La realtà, infatti, superava di gran lunga i timori di Leopold Handl che fu costretto presto a riconoscere che la città di ghiaccio non offriva la minima protezione contro le valanghe che con l’inizio della primavera erano particolarmente frequenti.

Sulla guerra sulla Marmolada Handl commenta: «In mezzo alle forze della natura la dedizione senza riserve e lo spirito di sacrificio del singolo rappresentavano il concetto fondamentale per la sopravvivenza […] i pericoli comuni accrescevano il sentimento d’unione e di fiducia reciproca. Reale cameratismo di montagna». *(3)

“La montagna della morte”, così i soldati italiani soprannominarono la Marmolada perché scarsamente equipaggiati e preparati com’erano, morirono più per il freddo e per i pericoli delle alte vette che per gli attacchi del nemico.

Il giovane soldato Antonio Pedalino, che si era arruolato volontario al fronte, non riusciva quasi a crederci «e questa era dunque la guerra? Mi avevano dipinto la guerra nella maniera più orribile ma dove erano gli uomini che conducevano la guerra, non si vedeva un’anima! Cercavo, come gli altri, di comprendere la quintessenza della guerra, ma almeno io, non ne ero in grado» *(4).

All’inizio i soldati italiani non comprendevano come facessero le truppe nemiche ad assumere con tanta velocità i posti di difesa, e come facessero a respingere ogni tentativo di attacco con altrettanta celerità.

Quando, infine, nemmeno gli aereoplani Caproni italiani riuscirono a scoprire dove si nascondessero le truppe imperial-regie, fu confermata l’ipotesi avanzata dagli Alpini italiani, ovvero che queste avessero costruito una vera e propria fortezza all’interno del ghiacciaio.

Le truppe italiane cercarono così di circondare i soldati austro-ungarici con gli stessi mezzi e alla fine i loro sforzi condussero a una battaglia unica nella storia all’interno del ghiacciaio.

Non era soltanto il nemico invisibile a sfiancare i soldati, quanto piuttosto la loro scadente attrezzatura e le scarse possibilità d’approvvigionamento.

«Abbiamo marciato nell’acqua sempre più in alto fino a quando, stanchi, completamente zuppi e tremanti di freddo, abbiamo trovato la neve e in quaranta c’infilammo in una baracca che in realtà offriva posto per 15 persone […]»*(5) ricorda l’allora diciannovenne soldato italiano Celestino Paoli.

Non solo mancavano baracche di legno e posti per dormire per i soldati italiani, ma anche materiale per riscaldarsi e cibo sufficiente.

In questo contesto è interessante confrontare il cinegiornale austriaco del 1917 che parlava di una “guerra eroica nella neve e nel ghiaccio” e il documentario italiano “La guerra nelle Alpi” dello stesso anno che rappresentava la fatica dei soldati italiani sul fronte alpino.

Paragonati ai soldati italiani, i soldati imperial-regi erano in numero minore, ma meglio equipaggiati per la dura vita nella neve e nel ghiaccio.

L’esercito austro-ungarico aveva cominciato per tempo a costruire baraccamenti e depositi per la legna sulla Marmolada. Questo costituì un vantaggio decisivo anche durante gli scontri, perché le truppe erano sensibilmente più riposate, meglio nutrite e meno stanche della guerra.

I soldati imperial-regi esortarono, infine, i soldati italiani a cambiare fronte e a disertare. Oltre a regali in denaro, e la prospettiva di mangiare meglio e di essere meglio equipaggiati, molti italiani che vivevano al confine sentivano di appartenere sia geograficamente che linguisticamente più all’esercito austro-ungarico che a quello italiano.

Così scriveva orgogliosamente alla madre nel 1915 il diciottenne Enzo Valentini che si era arruolato volontario al fronte alpino: «Quando mi trovai accanto alla bandiera provai nel petto un dolore pungente per la paura che tu, madre mia, non potessi vedermi tra la folla […]»*(6)

Alcuni mesi dopo, il 21.10.1915, il giovane soldato Valentini cadde in battaglia. Infilata nella giacca della divisa fu trovata questa lettera alla madre: «nelle trincee sul Sasso del Mezzodì. Una violenta tempesta di neve al tramontar della luna» *(7)

Dopo poco tempo per i soldati di entrambi i fronti l’iniziale entusiasmo e l’orgoglio di andare in guerra per il proprio paese si trasformarono in un incubo a oltre 3000 metri d’altezza. Diventava sempre più evidente quanto fossero prive di senso quella guerra infinita e la morte per accaparrarsi pochi metri di territorio nella neve e nel ghiaccio.

Alla fine, il 5 novembre 1917, i soldati italiani si ritirarono dagli scontri sulla Marmolada mettendo fine alla guerra sul fronte alpino.

Quando, ad ogni primavera il ghiacciaio si scioglie, ancora oggi, a distanza di cento anni dagli scontri, emergono testimonianze di quella guerra tra le viscere della montagna – armi, apparecchiature tecniche e mediche, uniformi, ma anche diari e oggetti quotidiani che ci lasciano intuire come dovesse essere la vita degli uomini nella città di ghiaccio.

Citazioni

*(1) Mario Bartoli, Mario Fornario e Giandolfo Rotasso, La città di ghiaccio – guida agli itinerari e al Museo della guerra 1915-1918 in Marmolada, casa editrice Publilux, Trento, p. 92.
*(2) Andrea e Wachtler De Bernardin, La città di ghiaccio – la Grande Guerra nelle viscere della montagna, Edizioni Athesia, Bolzano, p. 12.
*(3) Ibidem, p.23
*(4) Ibidem, p.23
*(5) Ibidem, p.23
*(6) Ibidem, p.52
*(7) Ibidem, p.52

Fonti

Mario Bartoli, Mario Fornario e Giandolfo Rotasso, La città di ghiaccio. Guida agli itinerari e al Museo della guerra 1915-1918 in Marmolada, casa editrice Publilux, Trento.

Andrea e Wachtler De Bernardin, La città di ghiaccio – la Grande Guerra nelle viscere della montagna, Edizioni Athesia, Bolzano.

Grundlagenpapier Österreichischer WissenschaftlerInnen.

Ö1 macht Schule: Der Erste Weltkrieg als Epochenbruch. Die Geburtsstunde des 20. Jahrhunderts.

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www.reise-nach-italien.de/italien-ersterweltkrieg.html

www.welt.de/geschichte/article124046807/Wie-derErste-Weltkrieg-den-Film-veraenderte.html

25° anniversario della morte di Thomas Bernhard

«Non c’è nulla da celebrare, nulla da condannare, nulla da denunciare, ma c’è solo da ridere, tutto è ridicolo quando si pensa alla morte» *(1)

disse Thomas Bernhard nel 1968 quando ricevette il Kleiner Österreichischer Staatspreis, uno scrittore che definiva gli austriaci «ignoranti e apatici»*(2) , e che non perdeva occasione per criticare l’Austria e i suoi politici, cosa che presto gli valse il titolo di “autore scandaloso”.

Bernhard amava provocare e soprattutto criticare la società austriaca del Dopoguerra che tentava di rimuovere il suo passato nazionalsocialista.

Questo eccentrico scrittore, che già a diciott’anni ricevette l’estrema unzione per una grave polmonite, era un outsider che amava definirsi un «misantropo».

Nulla che possa meravigliare, se si osserva con attenzione la biografia dello scrittore che, nato figlio illegittimo nel 1931, fu spesso accusato dalla madre di averle rovinato la vita.

Il nonno materno, anch’esso scrittore, rappresentò per lui un grande sostegno e una figura paterna che risvegliò nel giovane Bernhard la passione per la scrittura. Alla morte del nonno, il sensibile adolescente si ammalò di una grave polmonite per riprendersi poi dalla malattia lentamente e solo con grande fatica: aveva perso, infatti, non solo una persona cara, ma forse il suo punto di riferimento più importante. L’unico modo per elaborare la perdita era la “fuga” nella scrittura.

Il giovane Bernhard restò a lungo malato e costretto a restare a letto, così cominciò a osservare attentamente il mondo. Ovunque volgesse lo sguardo, tuttavia, si aprivano ai suoi occhi finestre sugli abissi umani. Un tema che non lo abbandonò più e che lo accompagnò per tutta la vita, è rappresentato, infatti, dalle facciate dietro le quali si celano corruzione, crudeltà, stupidità, arroganza, disprezzo del genere umano e Antisemitismo. Sicuramente si può definire Thomas Bernhard una persona difficile, un solitario che aveva pochi amici.

A partire dal 1952 Thomas Bernhard cominciò a lavorare per diversi quotidiani e nel 1955 cominciò a studiare canto, teatro e regia presso l’Università della Musica e dello Spettacolo di Salisburgo, un corso di studi che concluse nel 1957.

La sua compagna di vita fu Hedwig Stavianicek, che aveva 37 anni più di lui e che sostenne anche economicamente la sua evoluzione artistica. Più tardi Bernard espresse esplicitamente il desiderio di essere seppellito insieme con lei nel cimitero di Grinzing.

Il luogo dove, più di ogni altro, amava trascorrere il proprio tempo, era, invece, la sua masseria sul lago di Traun, in Alta Austria. Si trattava di un podere assai isolato e arredato in maniera piuttosto spartana.

«Mi piace molto stare qui. Pareti spoglie, il più possibile. Si tratta di una casa fredda e spoglia, cosa che ha un effetto positivo sul mio lavoro. I libri o ciò che scrivo, sono come il luogo in cui abito» *(3) disse una volta a proposito della casa sul lago di Traun.

Poderi medievali, antiche case padronali minacciate dal decadimento sono ambientazioni che ritroviamo in alcune sue opere come Verstörung (Perturbamento), Ungenach (Ungenach) o Korrektur (Correzione), dove giocano un ruolo decisivo.

Thomas Bernhard, tuttavia, con il tempo uscì dal suo isolamento campagnolo perché, in fondo, si sentiva a casa nello scrivere e nel viaggiare.

In Wittgensteins Neffe (Il nipote di Wittgenstein) descrive se stesso come «il nuovo arrivato più infelice che si possa immaginare, una di quelle persone che in fondo non sopportano nessun luogo sulla terra e che sono felici soltanto nello spazio tra un luogo e un altro» .*(4)

I viaggi di Bernhard in Spagna e Portogallo furono segnati da un’intensa attività letteraria, anche se la stessa Vienna, che al contempo amava e odiava, rappresentava con il suo Cafè Bräunerhof un punto di riferimento per la scrittura.

«Ho sempre odiato i tipici caffè viennesi noti in tutto il mondo, perché tutto in essi è contro di me. Allo stesso tempo per decenni mi sono sentito a casa proprio nel Cafè Bräunerhof» *(5)

Tutti i suoi viaggi erano accompagnati da un senso di estraneità, che fungeva da protezione da un confronto con il mondo esterno, che in qualche modo risultava essere troppo intenso.

Negli anni Sessanta divenne uno dei romanzieri di lingua tedesca più importanti e controversi, inoltre si era affermato anche come drammaturgo.

Il suo testo per teatro Ein Fest für Boris (Una festa per Boris) fu messo in scena per la prima volta nel 1970 ad Amburgo con la regia di Claus Peymann. La collaborazione con Peymann, che negli anni Ottanta divenne anche direttore del rinomato Burgtheater di Vienna, fu molto fruttuosa, ma Bernhard sviluppò nel tempo un’ostilità nei confronti del regista che elaborò nella pièce Claus Peymann kauft sich eine Hose und geht mit mir essen (Claus Peymann si compra un paio di pantaloni e va a mangiare con me).

Bernhard fu legato da intense e stimolanti amicizie anche con noti scrittori austriaci quali Ingeborg Bachmann e Peter Handke.

Quando negli anni Ottanta Bernhard si affermò su scala internazionale, le sue opere approdarono nei paesi latini, dell’Europa dell’Est e addirittura in Asia, dove incontrarono un grande interesse di pubblico e di critica. Il suo approccio poetico di osservazione a distanza della realtà ebbe nelle opere future sempre più importanza.

Le sue opere tarde sono caratterizzate anche da una maggiore pacatezza, da un’ironica distanza da sé e da un certo humour, in cui lo scrittore si prende la libertà di rappresentare la realtà in maniera piuttosto cruda sottolineandone gli aspetti grotteschi e così «trasformando in forma artistica il concetto negativo di tirata» .*(6)

La morte della compagna Hedwig Stavianicek nel 1984 colpì Bernhard duramente. Nel suo racconto Alte Meister (Vecchi maestri) quando il critico d’arte Reger si accorge della morte della moglie, commenta: «tutta l’arte, come sempre, non è nulla al cospetto dell’unica persona amata». *(7)

Thomas Bernhard muore nel 1989 poche settimane dopo la prima di Heldenplatz (Piazza degli eroi) in seguito a un’infezione cardio-polmonare.

Il testamento dello scrittore, la cui forma e contenuto sono stati continuo oggetto di discussione, può essere considerato la sua ultima “opera d’arte”. In questo l’autore, infatti, vieta la pubblicazione delle proprie opere all’interno dei confini dell’Austria fino allo scadere dei diritti d’autore.

Dopo dieci anni di rispetto di tale divieto, nel 1998 l’eredità di Thomas Bernhard divenne base di una fondazione privata che permise nuovamente la messa in scena in Austria delle sue pièce, mentre l’opera inedita di Bernhard, il così detto Thomas-Bernhard-Archiv, fu reso accessibile alla scienza e alla ricerca.

Ciò che rende l’opera di Thomas Bernhard così affascinante sono le sue melanconiche figure, personaggi segnati da una singolare e quasi attraente melanconia, che più che vivere esistono, organizzando la propria esistenza in maniera assolutamente pragmatica. Bernhard si rivolge agli aspetti negativi dell’esistenza umana, come il fallimento, la colpa e il destino, e ci pone uno specchio nel quale possiamo, orribilmente ma al contempo spassosamente, riconoscere noi stessi e il nostro mondo.

*(1) Thomas Bernhard in Judex, Bernhard: Thomas Bernhard, C. H. Beck Verlag, München 2010, p. 26
*(2) Thomas Bernhard in ibidem, p. 26
*(3) Thomas Bernhard in ibidem, p. 25
*(4) Thomas Bernhard in ibidem, p. 26
*(5) www.welt.de/kultur/ literarischewelt/article124770285/Wo-Thomas-Bernhard-rundum-gluecklich-war.html
*(6) Schmidt-Dengler, in Judex, Bernhard: Thomas Bernhard, C. H. Beck Verlag, München 2010, p. 27
*(7) Thomas Bernhard in ibidem, p. 28

Il Forum Austriaco di Cultura Roma ricorda Bertha von Suttner nel 100° anniversario della morte

Bertha von Suttner: vincitrice del premio Nobel, attivista per la pace, scrittrice, intellettuale, aristocratica.

Chi era davvero questa donna?

Senza dubbio è possibile affermare che Bertha von Suttner fosse molto avanti rispetto ai suoi tempi, e questo perché si è servita del suo intelletto e della sua posizione sociale per sostenere i suoi ideali e il movimento europeo per la pace. Un impegno che infine le permise di essere, nel 1905, la prima donna a vincere il premio Nobel per la pace.

Nata a Praga l’otto giugno 1843 con il titolo di Contessa Kinsky von Wchinitz e Tettau, la sua ebbe un corso piuttosto anticonvenzionale per l’epoca.

Condizionata dalla morte del padre ancora prima di nascere e dalla dipendenza dal gioco della madre, la giovane Bertha von Kinsky non aveva dote e avrebbe dovuto sposare un aristocratico molto più vecchio di lei, cosa che si rifiutò categoricamente di fare.

Al contrario, forte dell’educazione privilegiata ricevuta, si candidò nel 1973 per la posizione di educatrice delle tre figlie del barone von Suttner. Fu in quell’occasione che conobbe Arthur, il figlio più giovane della famiglia von Suttner, di cui s’innamorò perdutamente.

Si trattò, purtroppo, di un amore infelice, poiché il barone von Suttner non era favorevole al matrimonio tra il figlio e Bertha von Kinsky, che era 7 anni più anziana di lui e priva di mezzi.

Nel frattempo, nel 1876, in un annuncio su un giornale viennese si leggeva: “gentleman molto benestante, colto, maturo e residente a Parigi, cerca signora matura e portata per le lingue come segretaria e governante” .

Questo “gentleman anziano” era il chimico e inventore della dinamite Alfred von Nobel, presso il quale Bertha von Kinsky troverà un posto, anche se solo per breve tempo.

Alfred von Nobel fu colpito da questa giovane aristocratica colta e attraente e le fece addirittura delle avances. “È libera?” chiese a Parigi e Bertha von Kinsky gli aprì il suo cuore e gli raccontò del suo amore infelice per Arthur Gudakar von Suttner. Nobel le consigliò di rompere ogni contatto con Arthur, ma le cose andarono diversamente. Mentre Nobel era in un lungo viaggio, Bertha ricevette dal suo amante un telegramma, in cui le diceva che lui senza di lei non poteva vivere. Dopo appena due settimane Bertha fuggì da Parigi e sposò segretamente Arthur Gundakar a Vienna Gumpendorf.

In seguito a ciò la famiglia von Suttner diseredò Arthur Gundakar e la giovane coppia si vide costretta a riparare in Georgia su invito della Principessa Ekatarina Dadiani, un paese dove entrambi vissero soprattutto di scrittura.

Nonostante il breve incontro, Bertha von Suttner restò legata ad Alfred von Nobel da una profonda amicizia che durerà vent’anni. Di persona non s’incontrarono più di tre volte, ma le 94 lettere a noi pervenute testimoniano il ben più ampio scambio epistolare tra Bertha von Suttner e Alfred von Nobel, lettere che lasciano intuire la grande e reciproca ammirazione, l’affetto, ma anche la fiducia.

Dopo nove anni di vita isolata a Tiflis, Arthur e Bertha si riappacificano con la famiglia von Suttner e nel 1887 fanno visita ad Alfred von Nobel a Parigi. Qui Bertha von Suttner viene a conoscenza dell’International Arbitration League (la “Lega di arbitrato internazionale”).

Grazie all’approfondita lettura di testi di critica sociale, negli anni trascorsi nel Caucaso i von Suttner erano diventati oppositori della guerra, e non indugiarono a unirsi al nuovo movimento per la pace e a impiegare tutto il loro tempo e tutta la loro energia per la “questione della pace”.

In seguito alla pubblicazione del loro libro “Abbasso le armi!” del 1889, un vero e proprio best seller tradotto in più di 12 lingue, Bertha von Suttner divenne una delle personalità più importanti del movimento per la pace.

Alfred von Nobel fu profondamente colpito dal libro di Bertha von Suttner “ (…) che dichiara così coraggiosamente guerra alla guerra” e scrive in una delle sue lettere all’attivista per la pace che “il fascino del suo stile e la grandezza delle sue idee hanno più effetto delle armi degli eserciti” .

Tuttavia Alfred von Nobel non è convinto che i metodi di sensibilizzazione delle coscienze di Bertha von Suttner siano davvero adatti a porre fine alla guerra. Lui, che era diventato ricco grazie all’invenzione della dinamite e delle fabbriche di munizioni, crede poco alla diplomazia e ai tribunali arbitrali, ma piuttosto all’effetto intimidatorio di un’arma che può essere così distruttiva che ogni stato teme il suo utilizzo rinunciando a priori a un conflitto armato.

Così von Nobel scrive alla sua cara amica: “forse saranno piuttosto le mie fabbriche a porre fine alla guerra che i tuoi congressi, perché quel giorno, in cui due eserciti potranno distruggersi a vicenda nel giro di un secondo, tutte le nazioni civilizzate si ritireranno per paura del conflitto e le loro truppe saranno sciolte

Bertha von Suttner prega insistentemente il suo amico di penna di sostenere finanziariamente il movimento per la pace e di tanto in tanto si chiede se il suo sostegno sia motivato dalla loro amicizia e non dal reale convincimento nei confronti del movimento per la pace.

In questo forse non si sbagliava del tutto: “non manca denaro ma è il progetto che è mancante” oppure “informami e convincimi, allora farò qualcosa di grande per il movimento” risponde Alfred von Nobel all’amica.

Evidentemente, tuttavia, Bertha von Suttner riesce a convincere il suo buon amico perché nel 1895 Albert von Nobel dispone nel suo testamento che una buona parte del suo patrimonio sia destinato alla fondazione di un premio per la pace e per altre scoperte scientifiche e letterarie che dovranno essere presentate a una giuria svedese.

L’ultima lettera inviata a Bertha von Suttner in data 21 novembre 1896 testimonia vera e propria ammirazione: “sono molto felice di vedere che il movimento per la pace diventi sempre più forte. E questo grazie alla sensibilizzazione delle masse e soprattutto grazie a coloro che sconfiggono l’ignoranza e le tenebre, tra le cui fila, voi occupate un posto elevato” .

Nel 1905 Bertha von Suttner fu la prima donna a ricevere il Premio Nobel per la Pace un po’ tardi, se si pensa, che i primi premi furono assegnati già nel 1901 e che lei grazie al suo impegno e alla sua lunga amicizia con Alfred von Nobel aveva avuto un ruolo determinante nella fondazione del premio.

Bertha von Suttner muore il 21 giugno 1914 a Vienna, una settimana dopo l’omicidio a Saraievo del successore viennese al trono Francesco Ferdinando e della consorte Sophie von Hohenberg, la causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale.

Il Forum Austriaco di Cultura Roma desidera informarvi che la Professoressa Annapaola Laldi terrà una conferenza sul tema degli “sforzi per la pace” all’interno di una conferenza dedicata alla Prima Guerra Mondiale che avrà luogo l’otto ottobre 2014 sullo scambio epistolare tra Bertha von Suttner e Alfred von Nobel.

Il Forum Austriaco di Cultura Roma consiglia di leggere i seguenti articoli della Professoressa Annapaola Laldi pubblicati sulla rivista “Sapere” dell’ottobre 2013:

„Sapere“ del ottobre 2013

Se desiderate informarvi di più in merito alla vita eccezionale di Bertha von Suttner e sul suo scambio epistolare con Alfred von Nobel, il Forum Austriaco di Cultura Roma consiglia inoltre il seguente articolo di Alessandra Iadicicco pubblicato sul quotidiano “Il foglio quotidiano” nel 12 ottobre 2013 e di Danilo Curti pubblicato sul quotidiano “L’Adige” del 18 dicembre 2013.

„Il foglio quotidiano“ nel 12 ottobre 2013 „l’Adige“ del 18 dicembre 2013

Bibliografia:

    *(1), *(3), *(4), *(6) Abrams, Irwin: Alfred Nobel, Bertha von Suttner and the Nobel Peace Prize. http://www.irwinabrams.com/articles/oddcouple.html
    *(7) Curti, Danilo: Bertha e Alfred per la pace. In: l’Adige/ Cultura e Societa/ 18.12.2013, S. 9
    *(2), *(5) Iadicicco, Alessandra: Nobel per l’amica. In: Il foglio quotidiano/ 12.10.2013, Nr. 241, S. 10
      Annapaola Laldi: Quando Bertha gridava: “

Giu le armi

    !”. In: Sapere/ ottobre 2013, S. 50f.
    Biografia di Bertha von Suttner. http://www.dhm.de/lemo/html/biografien/SuttnerBertha